Prefazioni – Postfazioni
MANLIO SGALAMBRO (Un grappolo di rose appese al sole)
Da I testi di canzone sono poesia di tutti i giorni e quindi non sono poesia.Guai se lo fossero.Potremmo anche accettare di definirla ”poesia di tutti i giorni”. Ma anche questa definizione sarebbe impropria. Nel quinto movimento della terza sinfonia di Mahler si intona la canzoncina infantile che fa ”
Ct/05/09/2011 Manlio Sgalambro
QUARTA DI COPERTINA
Caro Bellucci,
la sua poesia civile e dolente
suscita in me un rapporto,anzi
una relazione tra lei e chi legge.
La pietas è dominante o comunque è
Su questo piano che ha agito su di me.
Una poesia ti deve sconfiggere e alzare le braccia
In segno di resa – almeno per un momento.
SUO MANLIO SGALAMBRO
GIORGIO BONOMI
(L’ultimo appuntamento )
Quel maledetto giorno d’estate
PREFAZIONE
Ho già avuto modo di scrivere che Giampaolo Bellucci è uno scrittore “vero”: vero nel senso che è “autentico” e che “sa scrivere”.
Bellucci riesce sempre, pur partendo da spunti, ricordi, evocazioni, suggestioni personali e soggettive, a trascenderli per renderli emotivamente comprensibili e rivissuti, con piacere o sofferenza, da tutti.
Se nel primo romanzo raccontava la sua storia, cioè il suo percorso, andata e ritorno, nel suo malessere mentale, ora la fantasia lo porta a parlare di un altro itinerario – per molti aspetti simile al suo, anche se in questo caso la fine del viaggio o, meglio, di una tappa fondamentale di esso, è più drammatica – che porta il protagonista dalla luce alle tenebre, per poi rivedere la luce del giorno.
Al di là del fatto raccontato, tutte le pagine – che si leggono di un fiato, con apprensione e curiosità, come un libro poliziesco – segnano un percorso “senza fine”, verso la catastrofe.
Il protagonista, Giordano, scopre l’amore, ma accanto ad esso c’è il destino oscuro, terribile, infatti perderà questo e quello nuovo cui darà la morte, sempre per la casualità (Camus avrebbe detto “assurdo”) della vita.
C’è molto della tragedia greca in questo racconto, infatti abbiamo il male che non è eliminabile; ma anche “la vita per la morte” come ci ricordavano, nel secondo dopoguerra, i filosofi esistenzialisti, e la “fuga nelle tenebre”, per riprendere il titolo di un famoso romanzo della “finis Austriae”.
Certo Giordano sconta la pena, anche per un periodo troppo lungo se paragonato alla colpa, ma lui sconta quella inestinguibile per natura, e rivedrà la luce, ma la sua vita non sarà più la stessa: il passato terribile è là e nessuno può più cancellarlo, si può solo sperare di stare-meno-male, ma non già di evitare quel “male” che è sempre presente ad aspettarci – come il male supremo, la morte – o di “dimenticare”, di rimuovere quello che è stato e che non avrà mai il “perdono” dell’altro e di se stesso.
Se il ritmo incalzante verso l’abisso è la caratteristica principale di questo lungo racconto, non possiamo non sottolineare alcuni particolari di notevole significato. In primo luogo la struttura stessa dei capitoli, brevi o brevissimi, con un senso del tempo bergsoniano, cioè “il tempo come durata”, con i suoi attimi che sembrano ore e le ore che sembrano attimi. Non manca un accenno metalinguistico quando il dottore si immedesima nel lettore, evidentemente perché Bellucci è consapevole che il lettore si identificherà nel protagonista; così è assai significativo il momento in cui i frammenti di due fotografie sono per caso accostati e mostrano due occhi – uno della donna uccisa e l’altro dell’assassino – che sembrano essere di un viso unico, con il che si ribadisce un tópos filosofico/letterario, l’unità tra vittima e carnefice. Toccante è anche la poesia finale della sorella dell’uccisa, infatti qui leggiamo la dichiarazione di non voler perdonare, ma invece sono parole piene di “perdono”, per cui l’autore, invertendo i significati letterali delle parole scritte/pronunciate, compone una sorta di lungo “ossimoro” concettuale, come del resto lo è tutto il racconto, dato che si parla di vita ma in realtà è la morte a prevalere.
Un personaggio, questo di Simona, che appare appena ma che è l’unico positivo, ponendosi come possibile catarsi: forse allora, dato che, come dice, “abbiamo sempre poco tempo, troppo poco”, un filo di speranza c’è e non è quello che tessono le Parche.
Giorgio Bonomi
DON PIERINO GELMINI (La storia di Marco)
Nel contesto della devianza giovanile un tema da tenere in considerazione è sicuramente quello della tossicodipendenza, vissuto sia sotto il profilo del degrado fisico e psicologico e dello smarrimento del senso della vita.
Marco il protagonista del libro è entrato in questo tunnel, dove il buio ha prevalso sulla speranza,dove la sua vulnerabilità, la sua debolezza non hanno trovato il sostegno, l’aiuto, ma soprattutto l’amore,quello vero, per riprendere in mano la sua vita.
l’autore in questo volume ha voluto significare che la vita di una persona ha sempre qualcosa di singolare ed esemplaree può perfino illuminare soprattutto quando, situata in un difficile contesto sociale, ci permette di comprendere meglio alcuni problemi e ci aiuta a viverli.
Nel confronto della nostra esperienza con quella di marco,ci accorgeremo che non sempre il nostro fardello è il più pesante da portare.
è un tema crudo quello dell’autore che evidenzia il male di una società ormai allo sbando, dove i valori, il rispetto,ormai non hanno più significato e dove si cerca di ottenere tutto e subito a prescindere dal come si può ottenere.Una società dove l’amore nulla può nel desolante grigiore della quotidianità,dimenticando che i nostri figli sono la primavera del nostro paese e cioè il fulcro della nostra società. Non si può medicalizzare questo tormento interiore.Invece come dice S.Paolo “L’amore sopporta tutto, crede a tutto, spera in tutto, resiste a tutto. L’amore non tradisce mai”.
La Cristoterapia praticata nella Comunità Incontro, con la sola fratellanza in Cristo, ha portato la luce a migliaia di nostri figli persi nel buio. Nel cammino al fianco del Cristo spesso riesce il grande miracolo della resurrezione ad una vita da uomini veramente liberi. L’osmosi di una cura reciproca concretizza il messaggio evangelico della Cristoterapia, perché come diceva S. Francesco “E’ donando che si riceve”, con un amore disinteressato, fraterno e smisurato, in un dialogo tra chi soffre e la fonte dell’amore che è Dio. La fede nel Cristo porta ad accettare un dolore perché nella mistica cristiana esso ha una collocazione precisa, sullo stesso piano della gioia e della felicità. Per questo chi ha fede ha una marcia in più!
La bibbia pone come motivo principale il fatto che la vita e la speranza non finiscono mai, e che bisogna fare dell’esistenza, come ha indicato papa Giovanni Paolo II° in una nota bellissima, non uno scarabocchio ma un capolavoro d’arte.
Don Pierino Gelmini
Fondatore e Segretario Generale della Comunità Incontro
ANTONIO CARLO PONTI
Storiadimarco
Le cattive compagnie
Una postilla
Iromanzi si possono scrivere in prima persona (Il giovane Holden oIl garofano rosso o La passeggiata), in terza (L’idiota oLa Certosa di Parma), in seconda(Lettera a unbambino mai nato). Ma si possono anche non scrivere. E nel caso di Giampaolo Bellucci sarebbe una iattura, perché ha sempre qualche cosa da dire e la sa dire, cioè scrivere. E lo fa con una dimestichezza che tradisce una sorta di febbre, l’autore si direbbe che cerca di bruciare le distanze nel tempo e nello spazio, riconvertire depressione e nevrosi – chi non ne è affetto? – in una terapia dell’espiazione narrativa, quando si sublimano sentimenti e storie, fino all’esito dell’epilogo, ossia il momento della resa dei conti, letteraria e umana.
La storia di Marco (??????????????)si può chiamare, citando Leonardo Sciascia, una storia semplice, lineare, un percorso senza freni che conduce senza mediazioni nel precipizio; dapprima il gioco è sfida, la sfida è purgatorio, il purgatorio si trasforma, in un battito di ciglia, in inferno, l’inferno in incubo. Non tanto per Marco, debole fuscello, canna al vento, tenero adolescente senza carattere, vittima sacrificale, simbolo di un eroismo con le foglie al posto delle radici, ma per la madre, mater dolorosa, mater castissima, mater purissima, mater amabilis, virgo fidelis, speulumjiustitiae, domus aurea, ianuacaeli, regina familiae; dulcissima mater. Di Marco, il giovane con dinnanzi agli occhi l’universo sonoro, il mondo pieno di colori, la vita, la paternità, la guida di figli, una famiglia per continuare l’opera. E la morte per amica.
Il romanzo breve, o racconto lungo, di Bellucci, al contrario, registra, in una cronaca di una morte annunciata, una tranche de vie esemplare, paradigmatica. La narrazione è la scabra e concisa anabasi di una parabola discendente, della discesa nell’abisso di un giovane dei nostri giorni incapace di difendersi dalle insidie della società affamata di carne fragrante e assetata di sangue caldo, un Moloch che sembra ineludibile e irredimibile, la droga, le droghe, i pusher, la criminalità organizzata globale, i colletti bianchi che dirigono e fomentano, elementi di delitto che avvelenano senza pietà le generazioni,anche a venire, triturando vite e speranze nella bocca di un immenso vulcano prossimo a esplodere. E poi c’è l’eterno tema delle cattive compagnie, delle responsabilità famigliari; ipocrisia, alibi. Siamo dotati di libero arbitrio. Ogni suicidio è un suicidio morale. Individuale.
Un’anabasi, si è detto, questo ha voluto raccontare incisivamente l’autore, dall’interno, chi lo sa, di esperienze private o autobiografiche, di amicizie finite con la morte per scarso o nessun rispetto per la nobiltà della vita, per il suo senso, perché uno può anche essere scettico o agnostico, ma non può negare che magari la vita ha il senso di non averne alcuno. Marco, dunque, assurge nel libro di Bellucci a capro espiatorio emblematico di una società che reprime il consumatore ed è inerme davanti elle offensive massicce e strategiche dei mercanti di morte, erigendo muri di bambù di contro a eserciti di bazooka.
Il libro è teso, incalzante, tagliente, assistito da una lingua non ornata ed efficiente, e ha in sé la quintessenza della parabola, dell’allegoria, ed è la rappresentazione di una traiettoria esistenziale quale esito. Umano e letterario. Marco non può non morire, perché il sacrificio è l’unica spiegazione, l’unica liberazione. La madre resta murata nel suo dolore, ma che importa? Lo spettacolo continua, deve continuare. La morte si sconta vivendo, diceva il poeta. Chapeau!
Antonio Carlo Ponti
Perugia-Bevagna, 10 novembre 2012
DOMENICO ADRIANO(Le mie parole)
PREFAZIONE
L’aperto canto, di Giampaolo Bellucci
In “Tre generazioni di poeti italiani – Una antologia del secondo Novecento” (a cura di Francesco De Nicola e Giuliano Manacorda – Armando Caramanica Editore, Marina di Minturno, 2005), segnalo la presenza del poeta Bruno Lauzi, il cui nome «si collega, naturalmente al mondo della canzone d’autore, essendo egli stato, alla fine degli anni Cinquanta, tra i fondatori – con Umberto Bindi, Gino Paoli e Luigi Tenco – di quella che viene definita, con qualche approssimazione, la “Scuola genovese dei cantautori”». La produzione poetica di Lauzi fu lavoro attento, disgiunto dal suo scrivere canzoni nelle quali le parole prendono forza dalla musica; mentre la poesia, sappiamo, nasce dalla parola nuda che in invisibili architetture si fa ritmo, musica.
Giampaolo Bellucci, invece, ha scelto una via unica per le sue poesie-canzoni, per il suo dettato che gli permette però di dire in presa diretta “sempre ciò che pensa”; come fa bene nel suo lavoro Roberto Saviano non a caso testimone qui presente nella prima poesia del nuovo libro, che molto semplicemente ha assunto come titolo Le mie parole. È un impegno, l’annuncio di una scelta di vita, di uno stile. Come Saviano, Gampaolo Bellucci è un “guerriero coraggioso” e usa le parole – ne ha pronte da dare in prestito – per aprire gli occhi di una moltitudine. C’è in questo atto una inconsapevole un poco eccessiva sicurezza, che a volte rischia di togliere forza alla poesia; ma Bellucci sembra non preoccuparsene, va dritto per la sua strada che porta alle cose “vive”, agli “uomini semplici” – e il suo sguardo di poeta sa anche la trasparenza di chiedere aiuto ai colori della natura come a quelli, quanto veri, dei grandi dipinti. Come il pittore, il poeta è un pescatore e sa aspettare; come il contadino sa che il suo raccolto dipende dal cielo ma molto dalla sua cura.
Perché “c’è chi ti porta sulla luna / e chi ti getta in un rovo”. Bellucci lo sa e canta, e mentre canta lascia uno spazio enorme ad altra possibile musica che possa far volare alte le sue parole. Sta in questo dono il sapore della sua scrittura, la cifra che va sempre cercando, nella scelta di dimenticare una finestra aperta in ogni pagina senza curarsi delle possibili o necessarie regole. Il suo procedere è pieno di reiterazioni, come delle eco di ritorno; non teme le rime, le più semplici o le più incantate. C’è anarchia nei suoi versi, follia lucida. Bellucci preferisce le vie strette, le case popolari, le piccole stazioni ferroviarie e ha una “infinita pazienza”. Non crede nel destino – ha molto camminato nel dolore e ora osa “sognare / un mondo migliore”. Nelle sue poesie c’è respiro, semplicità, Il miracolo sarebbe che lui stesso potesse cantarle, come nell’antico nascere dello scrivere. Allora chissà come crescerebbero queste cantate. Nel loro rastremarsi di certo perderebbero un poco di ostinazione – per fare ancora più strada ai pensieri forti e dunque all’aperto canto.
Domenico Adriano
ARNALDO COLASANTI(Cantando poesie)
Come un laccio sciolto, il verso di Giampaolo Bellucci è corto, è timido e furioso, non è nutrito dalla parola né dall’immagine ma da un singhiozzo rapido, quasi infantile, che smuove a tratti il petto della frase, scoprendo una poesia-canzone appena sussurrata. Viaggiare, scrivere: provare a non soffrire più. Pochi temi e, in fondo, tutti melodici. Ma un poco che non è inedia, bensì la più profonda introversione rispetto alla vita, così come accade quando si resta troppo con sé stessi.
Cantando poesie ha un’intelaiatura di pastelli e forse di disegni tracciati col pennarello. L’esistenza è quella che è e non fa sconti. Tuttavia, non dà rancore. Anzi scrivere poesie sembra che serva soprattutto a questo: a svuotarsi, a lanciare lontano dal corpo e dalla voce il risentimento. Non è facile individuare una logica di lettura. Il libro di Bellucci, nonostante la sua vocazione all’antologia, sembra la stessa esperienza – intendo la medesima necessità psicologica – riprovata e ritrovata cento e cento volte, come fosse un gioco al solitario, una visione dentro un sogno, laddove si cammina leggeri.
Cantando poesie ha poche ombre e poca luce. Possiede un’illuminazione tonda e diffusa, ma con un che di pulviscolo percettibile, come se ogni sillaba fosse messa in chiaro dalla stessa minuta luce di una lampada da tavolo. E’ un effetto commovente. Per quanto la visione sia generalmente di luoghi aperti (cieli, aria vista da una finestra, l’angolo di una piazza, il gomito di una via), ciò che ci ritorna sugli occhi mentre leggiamo è una condizione di tristezza perdurante e sottile, come una camicia leggera sulla pelle. E’ qualcosa, appunto, di rotondo, di mai percussivo. Ripeto, un’emozione amara o troppo dolce che sale piano e subito scompare.
Forse sta qui il talento lirico di Bellucci: in questa poesia con un tempo corto e tagliato, la vita si dà tutta. Come la storia di quel chitarrista, un tempo Dio e poi nell’oblio. O quella di un amico compositore, che non sa e non vuole accettare o forse nemmeno se lo ricorda più – che la vita, insomma, si è spenta, non si è mai illuminata: è rimasta a metà del vuoto.
Arnaldo Colasanti
ANTONIO CARLO PONTI
Postfazione
Giampaolo Bellocci, classe 1968, umbro di Foligno, città che, narra una simpatica leggenda metropolitana, è “lu centru de lu munnu”, vive e lavora a Bastia Umbra. Ha una forte vocazione di poeta e di narratore, concretizzata con la pubblicazione di due romanzi e di tre raccolte di poesie. Autobiografico soprattutto, perché la palestra della quotidianità, con i suoi alti e bassi, le sue depressioni i suoi eccessi, le ombre e le luci è quanto conosce meglio. Dunque materia dei sogni e delle speranze, oltre che registrazione del reale e dell’immaginario.
La poesia di Bellucci è davvero sorprendente e sapiente, quasi del tutto priva di punteggiatura, battagliera e fatta di rime e assonanze interne e aperte, di un lessico variegato e ora colto, ora popolare, dove convivono le cose e gli oggetti, il giorno e la notte, il tempo e lo spazio dell’anima. I diseredati e i diversi, i “poveri Cristi” e gli infelici sono il grande, nobile tema della raccolta A spasso per il mondo. Qui, nel timbro realistico, che raggiunge per intensità di rima e di metri la musicalità di parole da immettere in una canzone (non a caso il poeta ha frequentato, sia pure per poco, la scuola che il paroliere Mogol ha aperto in Umbria), risiede la drammaticità del cantastorie, come ad esempio nel raccontare di Maria: “Maria è un travestito/ Che ha gettato i pantaloni/ Ha indossato le sue convenzioni” e vive “nella falsa moralità/ Di chi di giorno l’addita/ E poi di notte ci va”. Oppure in “Nemo”, struggente litania che mi ricorda gli indimenticabili amici poeti conterranei Angelo Rossi e Alessandro Merini: “Mi diceva andiamo/ Al lavoro/ Quell’uomo/ Dal cuore d’oro/ Mi parlava sempre/ Di una donna inesistente/ Di un matrimonio/ Imminente/ E io ascoltavo/ E fingevo/ Fingevo/ Di credere/ Perché sapevo/ Che era una sua bugia/ Che era un suo sogno/ Che colorava con la fantasia/ E tingeva d’immenso il cielo/ E io l’ascoltavo/ Anche se sapevo/ Che niente era vero/ Ma fingevo/ Fingevo perché capivo/ Che Nemo voleva sentirsi vivo/ […] Ma un giorno vidi/ La sua faccia sul giornale/ Che diceva/ Nemo assassino/ Nemo assassino”.
Il secondo libro è Un grappolo di rose appese al sole, in cui Manlio Sgalambro antepone una rapida e sapida prefazione che, mentre afferma che “i testi delle canzoni sono poesia di tutti i giorni e quindi non sono poesia”, dando il colpo di grazia a quanti sostengono la loro poeticità (un testo staccato dalla musica non esiste autonomamente), nel contempo ne loda la fisicità e la contabilità, augurandosi che essi trovino la voce che gli manca. Le poesie della raccolta sono quarantasette e tutte hanno un andamento diacronico che ne sottende l’anima e il fine ultimo, una sacralità del realismo e una rarefazione del sentimento, nutrendosi di versi brevi e anaforici, liberi metricamente ma dotati di intima sonorità, che li rende pronti a cercare e a trovare una musica che ne sostenga la centralità. “Questi angeli di fango/ Vestiti di noia/ Che non hanno più luce/ Che non hanno più voglia/ Di lasciare andare/ Di tornare e di volare/ In lidi d’azzurro dipinti/ Questi uomini vinti/ Dall’abnegazione/ Di emozioni e istinti/ Travolti dal vortice dei / Venti/ Travolti dal male/ Dei nostri tempi” è quasi la bandiera del pessimismo del poeta, che scrive: “Un giorno mi sento/ Cento metri sopra il cielo/ Il giorno dopo sprofondo/ Nel baratro più nero” senza immediata speranza, ma alla lunga, grazie allo scrivere, robustamente agguerrito.
Nel 2013 Giampaolo licenzia il terzo libro Le mie parole, dove trova conferma, accanto alla verve musicale e cantabile, impareggiabile in epoca di prosaicità narrativa in poesia, ma sopra ogni altra cosa la spinata sociale, sociologica, l’engagement, la propinquità con il mondo del disagio, dell’emarginazione, innanzi tutti dell’Io, dell’autobiografismo che pervade ogni atomo dei suoi lirici racconti, entro spirali di rime che ne fanno un canzoniere compatto, senza vie di fuga, anzi no, con miriadi di spiragli fatti di parole, le sue parole, perché, come affermava Mallarmé, la poesia non è fatta, al fin fine, che di parole. “Con le parole disegno/ le colonne/ di questo mondo/ marcio/ che al cuore ha/ uno squarcio/ che io vorrei ricucire/ per non farlo soffrire.” Poesia consolatoria, terapeutica, taumaturgica? Anche, perché no.
GIANLUCA PROSPERI(cantando poesie)
Postilla “Silvio”
Ritratto in prosa e in versi, Silvio, è il carissimo amico disabile a cui è dedicato l’ultimo libro di Giampaolo Bellucci, che ha inteso in tal modo rendergli omaggio con una crestomazia delle precedenti sillogi, integrata da un video documentario e da componimenti inediti, compreso il racconto sull’amico da poco scomparso. Quella narrata è dunque una“storia vera” di taglio cronachistico e dai toni realistici, a volte persino crudi, con spunti di analisi sulla difficile condizione della disabilità e sulla sua faticosa accettazione sociale, solo rischiarata dalla abnegazione dei familiari e dalla sensibilità del protagonista che per il festeggiamento del cinquantesimo compleanno, ringraziando gli invitati, dice: “La riuscita di un compleanno non si giudica da quante candeline ci sono sopra la torta, né da quanto grande essa sia, ma dal numero di persone con cui la dividi. La candelina che tenevate in mano non era un mezzo per usarvi come porta-candele. La sua fiammella rappresenta la luce che ognuno di voi (da pochi o da molti anni) ha portato nella mia vita”. Depurati di ogni materialità e difficoltà motoria ed esistenziale, i versi a lui dedicati (e nel video di Marco Grisafi affidati all’autorevole e partecipe recitazione di Athina Cenci attraverso i luoghi del capoluogo umbro) ne sublimano quindi l’essenza umana esaltandone quella speciale “luce” interiore che gli “illumina l’anima” e, a fronte di qualsiasi ostacolo, nel “sogno che trasforma la realtà”, lo fa librare “nell’azzurro immenso”, lo fa camminare “su prati dorati / Strade, sentieri selciati”, attraversare “l’oceano / E il mare” e andare “di città in città / Trasmettendo/A tutti/La sua serenità / E agli amici che gli stanno vicino / regala / Un dolce sorriso di bambino”. Neppure però deve meravigliare di sentirvi riecheggiata la canzone morandiana Il mio amico, sul medesimo tema, peraltro in un mix con Uno su mille (“Anche quando è dura / La salita”), perché l’autore ha comunque consuetudine con le “parole in musica”, per i frequenti echi canori nei suoi testi e la collaborazione con alcuni musicisti, avendo frequentato il Centro Europeo di Toscolano, fondato e diretto da Mogol. Molti suoi componimenti perciò si configurano come “poesie-canzoni” ovvero “testi senza note”, ma “pronti a darsi alla musica” (ha scritto Manlio Sgalambro), come del resto viene ribadito nel titolo Cantando Poesie della presente raccolta. Evidenziati dunque dalla finalità commemorativa dell’opera, i due testi in cui Silvio viene onorato e additato quale esempio di vita condensano anche la duplice voce poetica di Bellucci, espressa in parole sferzanti o liberatorie, in oscillazione tra lo scavo introspettivo nel “disagio” esistenziale e la denuncia delle patologie sociali, sempre e pervicacemente dalla parte dei più deboli e degli emarginati, in nome di un riscatto dell’umanità, vagheggiato tra sogno e utopia e rinsaldato pure dal sentimento dell’amicizia, qui intensamente testimoniato.
Gianluca Prosperi
PLINIO PERILLI (LA VITA NON FA SCONTI)
“Uno che ruba al cielo / il sole”
Per Giampaolo Bellucci
e la sua (la nostra) vita
che non fa sconti…
Ma ora torniamo alla Realtà… poetava Pasolini – come a rammentarsi il dovere basilare (fuori di ogni intellettualismo, anche impegnato, macerato) di aderire e rispettare il corso normale e assoluto della vita: dove per normale vanno sottintesi tutti i dissidi, le ansie, le sconfitte, gli oltraggi, le turpitudini; e come è ovvio anche le sorprese, le dolcezze, le stanchezze, le carezze…
rimerebbe qui Giampaolo Bellucci:
Amo la semplicità
Contadina
Amo chi non ha fatto
Oltre la prima
Amo quell’espressione
Genuina
Che nasce come il
Sole nella mattina
Appassionato, esemplare e schietto poeta naïf, nudo in tutte le sue vicissitudini ma mai arreso nella voglia pulsante di cantarle, respirarle come un credo o un anelito, Bellucci cadenza l’urgenza iterata, rimata appunto, stornellata, di un cantautore “popolare”, di un ballatista semplice quanto tagliente, a tratti irruento…
Uno che ruba al cielo
Il sole
E ci riscalda
Un freddo cuore
Niente caleidoscopi visionari, come echeggiavano, sfarinavano radiosi magari in Bob Dylan o perfino in De Gregori… Il suo must sarebbe Dalla (cui dedica in effetti un ricordo sincero: “… Ebbi la fortuna / di incontrarlo / sotto la luna / d’un’Assisi incantata / alla quale / cantò / la sua serenata. / Io ero un umile / cameriere / lo servii / e gli versai / da bere / e mi rimase impresso / come fosse adesso / quella sua giovialità / la sua semplicità…”). O forse andrebbe inseguendo il De André dolente e astratto di “Quello che non ho”, e più ancora de “La cattiva strada”, cinico e romantico assieme: “E quando poi sparì del tutto / a chi diceva ‘è stato un male’ / a chi diceva ‘è stato un bene’ / raccomandò ‘non vi conviene / venir con me dovunque vada, / ma c’è amore un po’ per tutti / e tutti quanti hanno un amore / sulla cattiva strada / sulla cattiva strada’.”
E insomma, nei suoi punti e snodi migliori, ci sembra degno, magari per l’infinitesimo, svaporante dono di luce-e-ombra di questa nostra, contraddittoria ma pur preziosa “vita che dà barlumi” (Montale!), di tutta l’umorale, chiaroscurante genìa dei poeti di strada, dei cantautori, ripeto, popolari (ma non “populisti”!): aedi dimessi ma impennati, inquieti e orgogliosi, che in Francia hanno avuto i loro Boris Vian e magari da noi il livornese Piero Ciampi, anarchico inguaribile, libertario in ebbrezza (più che il bravissimo Guccini, rimatore di fede, certo, emiliano goloso di buona cucina e verità!: ma anche puntiglioso ideologo, pasionario… d’intelletto).
L’avvelenata di Bellucci è sempre e comunque la sua poesia, questa cronaca irredenta e irredimibile di dramma e amore, storture o delizie quotidiane, scontri/incontri, ininterrotto monologo per far dialogo, io, tu, noi, voi, loro rispetto a lui, “giovane trasgressivo”, ma permanentemente comunicativo:
Giovane oppositore
quando parlava
con la voce del cuore
Si guardava la vita
secondo noi
vissuta male
e non capita
E nella nostra testa si accendeva
sempre più viva
sempre più vera
l’idea della protesta
Si guardava il mondo
con la speranza di cambiare
tutto il marciume che non potevamo accettare
*********
Poeta della vita – vitale e umbratile come lo sono le sue giornate, le sue operose illusioni, Giampaolo Bellucci (Foligno 1968, ma vive da sempre a Bastia Umbra) è affascinato dai “poeti maledetti”, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, ma ama anche Kafka ed Hesse e Proust – ma soprattutto il mondo, il nuovo, giovanilistico sogno del rock e della rivoluzionaria beat generation, che era nel pieno della sua forza proprio quando lui nasceva, figlio di quel ’68 che comunque creò, anelò una svolta: quella che Giampaolo ancora insegue, come una stella, una cometa che pur sempre brilla, sempre più offuscata, coperta dalle nuvole (magari dal pulviscolo informatico!) della modernità: maga tecnologica ma illusoria d’etica…
A volte mi chiedo
Se è vero tutto ciò che vedo
A volte mi domando
Ma con chi cazzo sto parlando
A volte credo
Che io sia fuori posto
E mi siedo
In un punto più nascosto
Dove comincio a pensare
Dove nessuno mi può vedere
E affogo la mia anima
In un bicchiere…
– così recita e intona in una delle sue ennesime, amare ma scanzonate filastrocche o tirate esistenzialiste di Cantando poesie (suo libro + c.d. del 2015, Edizioni Thyrus). “Una sacralità del realismo e una rarefazione del sentimento, nutrendosi di versi brevi e anaforici, liberi metricamente ma dotati di intima sonorità”, chiosa Anton Carlo Ponti, poetico nobiluomo umbro, lucido d’esperienza e affetto in contemporanea.
La vita non fa sconti, titola e intona e cadenza e rima ed echeggia Giampaolo Bellucci, cameriere/poeta, cantautore naif, sereno ormai anarchico en artiste, capace però di far tesoro di questa maliarda dissoluta, calda o perfida amante che è la Realtà (Ma ora torniamo alla Realtà!…), con poesie/canzoni che trattano della piaga del “lavoro nero” e dell’incubo storico di “Mauthausen”, armonizzando e convocando in ossimoro (la “coincidentia oppositorum”!) “gioia e dolore”, Nico “ragazzo difficile”, “angelo ribelle”, ed “Elisa” donna delusa che “ha una vita / incasinata / dopo una lunga / storia si è separata…”; la famigerata cosiddetta “crisi” e la voglia e anzi il bisogno di una “poesia bambina”…
E allora esco
Rubo un’immagine
A questa mattina
Scolpisco nelle
Pagine
Un sorriso di bambina
Che mi ha regalato
Serenità
A me poeta un po’ svagato
Che a volte sfugge
Alla realtà
E naturalmente “gli amici”, che “sono nel buio / le mie luci”, “sono come le boe / in mezzo al mio mare”…
*********
La vita non fa sconti a nessuno: meno che mai ai poeti.
E così ondeggia e ferve, questa poesia, formicola e si rinsangua, di continuo rigemma, spiga – fiorita ne sfiorisce – davvero come l’affettuoso, rincuorante giardino di casa.
Quante stagioni attraversa, Giampaolo Bellucci, quante vicende si elidono e si sommano, corrompono o ripristinano il sogno bello dell’armonia!
Sono qui ad aspettare
Tra la pioggia e il mare
Sono qui ad aspettare
Guardo dalla finestra
Per vederti tornare
Bellucci fa sempre perno sulle rime per dare forza al gesto, oltre che al concetto: “aspettare”/”tornare”, va bene, è languore romantico. Ma a volte il gioco s’inasprisce, s’incupisce più amaro, melanconico…
Ho visto di tutto
Dentro ad ogni matrimonio
Distrutto…
O peggio ancora:
Per arrivare al
Traguardo sgomito
Sono stanco
Sputo sangue e vomito
Mi piacciono, di Giampaolo, gli smarrimenti – certo – ma ancor più le asprezze accettate, forse anche coltivate…
Saggi impulsivi bugiardi sinceri
Rossi bianchi gialli neri
Sono così
Questi miei pensieri…
Amo il coraggio semplice, la poesia schietta, nutrita, respirata – che non sublima stile e stilismi, ma porta sulla schiena esperienze e dissidi, amori e disamori malumori e fervori, vissuti e gestiti, evviva!, allo stesso modo:
La vita non fa sconti
Ci regala albe dorate
Rosseggianti tramonti
Tante storie
Interminabili racconti
Dolori gioie
Innamoramenti
Desideri voglie
Ma poi
Se sbagli paghi
L’arte è lunga e la vita è breve… si amava dire e acclarare, invocare come classico viatico.
Giampaolo Bellucci fa allora qualcosa di ben più trasgressivo e insieme anarchico, solerte e sbarazzino: adotta e propugna un’arte breve (ché la vita è breve!) – una poesia recitata, cantilenata anzi come un riff, un ritornello da eterna canzone pop, interminabile, magari, ballata folk, amplesso intimissimo ma insieme epocale…
La vita è troppo corta
E spesso siamo fuori tempo
E tu ora te ne sei accorta
E mi vorresti sempre dentro
E allora apri questa porta
E viviamo ogni magico momento
Eterno, invecchiato ragazzo (cattivo?: no, fin troppo buono), Giampaolo – magari senza rendersene conto – clona l’incipit roboante d’un famoso poemetto di Allen Ginsberg, e irride il lezioso buonismo piccolo-borghese, la morale di comodo di tante e tante coppie, nonché “Matrimoni”:
Ho visto scoppiare
Le migliori coppie
Con voglie e fantasie
Nascoste
Ho visto fare le peggiori
Cose
Da quelle che un giorno
Erano dolci spose
Repertorio agrodolce, regesto indiscutibile, irredimibile della Dea Realtà (Ma ora torniamo alla Realtà!…), il suo libro/diario ha sempre e comunque il pregio di una grande schiettezza e sincerità. Un dono duplice, fra prosa e poesia, abbagliati e ombreggiati assieme… E forse il senso e l’immagine migliore di tutta la sua poesia rimane fermata, incarnata in questo cane che in una grigia giornata di pioggia, in riva a un lago tremulo e incupito, “cammina” (non zampetta – umanizzato dunque al massimo: autoritratto, diremmo)…
Scodinzolando
E va in ogni dove
Come fosse il padrone
Del mondo
Ed ora piove
Ed è fantastico
Questo sfondo
Dove tutto si muove
Ed ora la mia fantasia
Va verso la malinconia
Mentre la mia mano
Scrive questa poesia
(settembre 2016) Plinio Perilli
ANTONIO CARLO PONTI (La vita non fa sconti)
Un poeta insaziabile
E inarrestabile, inclassificabile, irrinunziabile, impagabile, inafferrabile. E abile. E calmo e salmodiante nella sua rabbia declinata nella summa divisio (o nelle due corde pirandelliane) di pazza e civile. Pazzia d’amori travolgenti e sovente irraggiungibili, e realtà fatta di poveri diavoli travolti dalla iella, dove l’occhio e il cuore del poeta si sposano in matrimonio insieme religioso e anagrafico-municipale, e talvolta in mera unione senza timbri e viatici sacri o profani. Il cuore di Giampaolo batte per gli umiliati e offesi, non tanto perché chi più chi meno lo siamo un po’ tutti, anche i geni, insomma non per solidarietà lacrimosa, ma per virile protesta: Giampaolo vorrebbe un mondo come un posto pulito illuminato bene, dove non regni soltanto il nada hemingwayano.
S’è intitolato questa noterella poeta “insaziabile”, perché le sue papille liriche assaporano come in una folgorante sinestesia senza fine tutti i gusti e tutti i colori, tutti i suoni e tutti i sentimenti, in una sfida all’ultima parola e all’ultima rima. “Inarrestabile” perché la versificazione gli fluisce dentro con furor automatico, sfornerebbe un libro al mese incurante di probabili ripetizioni o calchi, ma tant’è, scrivere è il suo buen retiro, il nido dove covare le uova dell’ingegno artistico, la dimora dove generare perle e ire, malinconie e qualche lacrima. “Inclassificabile” la sua poetica, bilicata fra “parolierismo” e manifesto engagé, fra denuncia e terapia psicologica. “Irrinunziabile”, come non gustare una “canzone” quale piacere perfino olfattivo oltre che sonoro? “Impagabile” e “inafferrabile”, per la leggerezza dura delle idee mitigata dalla cantabilità penniana o caproniana, un unicum, e sfuggente, mai catturabile senza fatica, semplicemente lanciando una rete in aria. No, la lettura si fa complessa, a volte imperscrutabile nonostante ostenti la semplicità di dettato quale chiave di base, la facilità quale leva da cui sollevare il giudizio. Si definiva abile, dunque, anche la sua poesia ha avuto bisogno di mallevadori e editor, data la quantità inondante bisognevole di selezione drastica. Giampaolo Bellucci, diciamolo a chiare lettere, è un alieno, un marziano in Umbria, che dalla operosa piatta Bastia Umbra dove vive irradia le antenne della sua emittente, simpatica, empatica, amabile creatura scesa in terra a allietare i nostri cuori sordi e muti.
Molti suoi versi son un inno alla vita e all’amore, sì con numerosi distinguo e tutti intinti nell’in159 chiostro della malinconia nostalgica e romantica, ma anche tesi, diretti, puntuti come baionette inastate, lance e frecce in duelli di lessico maturo e lieve. «Ho odiato amato / Fino a far scoppiare / Il cuo-re / E ora sono qui / E penso a te / Ancora sveglio oltre le tre», dice, ma senza trauma, consapevole che il ricordo è vigile e può bastare a lenire il dolore della solitudine. E il poeta ama non solo le sue donne reali o immaginate-immaginarie, ama i granai e i fienili, i campi arati e i vigneti, «i calli nelle mani», i conta-dini, gli operai, conosce la spietatezza della fabbrica; ama le partite a carte e le bestemmie e il fuoco nel camino, i calici di vino, vuol bene a «chi non ha fatto oltre la prima» ma conosce la vita fino in fondo. «Come mi piacerebbe / Poter assistere / Al mio funerale», che è aspirazione impossibile ma affasci-nante. Seduto da morto su una nuvola a guardare l’ipocrisia e l’affetto sincero, le genuflessioni e l’eu-carestia e il pianto vero e la teatrale lacrima finta. Il poeta è questo coacervo di sensazioni e emo-zioni, poeta nato incontenibile e inimitabile, irre-frenabile. Però, pur fiorendo dentro giardini rigo-gliosi, un sano realismo plebeo non può impedire al poeta di gridare un preciso e reciso: «Quant’è puttana la vita!». Roba da Ginsberg o Bukowski. Che Bellucci sia un tardo epigono della premiata ditta beat generation? Mi sento di negarlo
Anton Carlo Ponti, Bevagna-Perugia, 23-24 agosto 2016
ANTONIO CARLO PONTI (Il bambino e il barbone)
Prefazione
Tutto è puro per i puri
Scommetto che Giampaolo, mentre scrive di queste tranche de vie, si commuove. Cosa che non gli capita credo mentre scrive le poesie, gli vengono su dai precordi già adulte, come gocce di acque sorgive, fluviali, già vestite di forma e contenuto, e rime e assonanze, quasi in musica.
Con questo Il bambino e il barbone il nostro bravo autore è alla quarta prova di narrativa: dopo Il buio e la luce. una storia di uscita dal tunnel del disagio sociale e mentale; dopo L’ultimo appuntamento, un thriller psicologico; dopo La storia di Marco, uno struggente de amicitia. E con il presente Il bambino e il barbone l’autore conferma innate doti narrative, sa raccontare, il che non è di tanti storyteller che difettano d’immaginazione, ossia la materia prima. Di cui son fatti i sogni (suggeriva William Shakespeare).
Ma il libro non è buonista, è ottimista semplicemente, e rappresenta plasticamente un inno alla vita e alla generosità. Ve n’è davvero bisogno se il sogno di un mondo più vivibile potrà essere a portata di mano.
Questo racconto lungo o romanzo breve si legge d’un sorso, ed è doverosamente ingenuo, ma la realtà di una storia raccontata non dev’essere interamente vera, ma verosimile. Quel che una volta si definiva la realtà romanzesca, quando la realtà imita l’artificio. E la vita diventa un po’ meno inesplicabile se il caos (o il caso) entra a piedi uniti nell’ordine delle cose. In questo libro tutto nasce da un atto d’amore giovane. E si sa che l’amore vincit omnia, et omnia munda mundis.
Anton Carlo Ponti
Bevagna-Perugia, febbraio 2017
PLINIO PERILLI
Giampaolo Bellucci in Black & White
La poesia della vita, dalla vita
C’è una poesia progressista e sempre coraggiosa, ma non ferma o viziata avulsa e prospettica, rintanata e spaparanzata comoda tra i velluti, sulla carta: poesia della vita che nasce dalla vita, schietta e istintiva, accelerata romantica al massimo grado, ma anche, talvolta, scorata e inasprita, scettica a iosa, dubbiosa che la gentilezza sia la regola, la prima norma sensibile – e non invece l’eccezione, bistrattata e invisa… Poesia all’aria aperta, aperta al vento, piena di vento, ventosa sempre di parole ed emozioni…
Il nostro amico Giampaolo Bellucci è della partita, e lo fa, da anni, con una sicurezza, una pazienza, una fedeltà che ci lasciano sempre e comunque ammirati. La vita non fa sconti, ha già intonato nel 2016, meravigliosamente borbottando in canto, se non altro per sopravvivere, “Sopravvivere” perfino al proprio stesso amore:
Sono qua
Nell’acqua alta
Che sbraccio
Per rimanere a galla
Bianco come uno straccio
Cerco in me la falla
Estro e talento – già l’ho scritto convinto, argomentando – da cantautore on the road, o comunque da trovatore, menestrello di gioie così come di malesseri, tarato e attrezzato sia per le moine briose, le carezze tenere della sorte, che per i giorni più bui… Immaginate un Jacques Brel che canti in italiano con la voce di Bruno Lauzi, eterni ritmati o sincopati di vita vissuta, ma più che con le melopèe, la sensualità quotidiana di Paoli (i cieli in una stanza), con la voce bassa e raspata da fumo e whisky del De Andrè più accigliato, irriverente, ingarbugliato, indispettito…
Quando vedo chi non
Ha i soldi neanche per mangiare
Quando vedo il furbo
Che vuol fregare
Quando qualcuno
Chiede aiuto
Perché sta per annegare
Ora questo suo nuovo libro conferma il suo impegno, il suo destino – oramai – di stornellatore, cantore di malesseri. Casual ma a suo modo esimio, elegante e incazzato. Con una sua grazia un po’ recitante, un po’ cantilenata, abrasa… Affetto, destino sensibile, attenzione agli altri. All’Altro a Sé che non è solo discettazione, chiosa da dottori di Psiche, o sociologi “liquidi” della società “liquida”. Ed oramai, pressoché liquidata d’Umanità.
Insomma, niente a che fare, qui, attenzione, con le ormai orride ideologie, le sovrastrutture intellettualistiche, le ignominie consuete che sono materia insieme scelta e usuale per le News 24, le interminabili cronache dello sfacelo contemporaneo e futuribile in atto, sagra e giostra d’una tecnologica, tecnocratica empietà…
Viva i “matti” quelli
Che ti rispondono con gli scatti
Viva i “matti” quelli liberi
Come i gatti
*******
I temi, in Black and White, ci sono tutti – intendo quelli essenziali, basilari del vivere e soprattutto, ahinoi, del sopravvivere. Chi più di lui è capace di convocare sul bianco candido del foglio (e all’inizio, del nostro stesso sguardo), “I bambini di Scampia” e l’”IDEOLOGIA” sfottuta, stigmatizzata invece a stampatello… “Il giardino dei depressi” e gli amici veri del “Sottoborgo”…
Ho sentito
Una storia cruda
Che parla di bambini
Che vivono per la strada
I loro destini
Uno spino una pista una spada
Le loro vite
Dal crimine imbruttite
Nero e Bianco, dunque, come categorie dell’esistere, forse anche del pensiero e dell’agire, dell’Esserci, avrebbe chiosato, filosofato Heidegger alla grande… Divisione sempre un po’ manichea come tra il Bene e il Male, i Sommersi e i Salvati… Che però qui acquista, conquista una scanzonatezza quotidiana, un riff cantabile che solo Giampaolo riesce così bene a gestire, ad attutire… Immortalare come un Purgatorio, che cosa strana, più luminoso e numinoso invece d’uno sterile, azzimato Paradiso borghese del privilegio, eh, sì, del benessere che si fa presto a dirlo, a capirlo, concede perfino il dono risaputo e benvoluto, vellutato e altolocato della pietas…
Ma dopo la Caduta, invece? Dopo la Cacciata? Masaccio potrebbe anche oggi, redivivo, fare il cartellonista pubblicitario, l’artista pop…
Tutti la chiamavano Mary
La drogata
Era una brava impiegata
Fino a quando
La vita non l’ha cambiata
E ora è rimasta sola
non ha più
nessuno
e seduta in una panchina
piange ogni mattina
Del resto Bellucci non è nuovo anche all’idea della favola triste che nobilita l’uomo (ricordo nel ’17 Il bambino e il barbone), e riesce perfino a farlo sorridere al bene, a tutte le risorse positive che la stessa vita o il nostro iroso mondaccio contengono – e che vanno pure elegiate e segnalate, qui raccolte nell’adesione instancabile e volitiva dei versi, sempre impegnati non solo sulla carta, ma soprattuto nella vita, nelle anse e ansie di ogni giornata.
Nessuno come lui, ad esempio, scioglie e risolve a perfezione i nodi e i viluppi, l’aiuto, le parole, i silenzi, i debiti e crediti di un sentimento così profondo, decisivo proprio per crescere, come quello dell’Amicizia. Mettiamoci la maiuscola:
Siamo cresciuti
Nello stesso quartiere
Ci siamo perduti
Dentro le stesse notti nere
Abbiamo giocato
A poker
Abbiamo amato
Gli stessi rokers
Venuti dal sottobosco
Che non era certo
Un posto
Lindo e fresco
Che ogni giorno abbia la sua pena, il suo affanno, è evangelico. Ma i giorni, ogni giorno di Bellucci – evviva! – ha anche, per risarcitorio contrappasso (questa volta) la sua poesia, il suo canto effuso e tossicchiato, addolcito trepido di pena. E questo anche perché, lo sappiamo bene, com’è e qual è “L’Universo delle cose”. Giampaolo lo risolve a perfezione in un subitaneo, agrodolce gioco di rime. Sapienziali anch’esse, eccome!
Dipende
Da dove nasci
Dove cresci
Con chi esci
…
Con tutto il rispetto – anzi il fastidio – possibile per la poesia aulica o peggio accademica, qui c’è ben altro ritmo e necessità. La valenza linguistica, del resto, non può mai essere disgiunta dall’impegno concreto, dal messaggio sensibile, quelli sì mai surrogabili da teorizzazioni avulse, tronfie, reamente insopportabili. Teniamoci invece questa sana e santa cantabilità del malessere, grazia del cipiglio, maldestrità, perfino, dell’orgoglio.
*******
È che Bellucci Giampaolo resta sempre vero, e ci piace sempre leggerlo, ci inorgoglisce capirlo e sentirlo amico, nostro e della vita che fluisce o tossicchia, ingrana o singhiozza, come un carburatore intasato, una vecchia macchina sempre pronta ad andare ovunque, andare comunque, andare verso la luce, più luce, ma raccogliendo il buio, anzitutto il buio che resta indietro. E invece viene prima, è l’affanno sacrosanto d’ogni giornata, quell’alito d’anima e coscienza, quela smorfia cara di dignità che salva i sommersi o, se il cielo s’impenna, se Dio davvero s’indispettisce d’iperuranio e di luce, ci infligge il buio più buio, trascende in black e lesina il white, e insomma sommerge giustamente, come in un provviso film horror che brulica su tutti gli schermi fin dal tempo dela Creazione, sommerge i salvati illusorii, quelli che non la meritavano, la salvezza, nemmeno dentro l’Arca di Noè, tra le coppie in amore, per fortuna esemplari, dei nostri cari animali umanati…
Mentre in cielo gira e gira una bianca colomba in attesa di sole e leopardiana “quiete dopo la tempesta”, una colomba che a un certo punto stupisce tutti, perché se ne torna con dentro il becco non più un rametto verde d’ulivo, ma, forse molto più, il Black & White di Giampaolo Bellucci, un suo verso caro che dichiara la pace a tutti gli uomini, e a cominciare al suo stesso cuore… Una dichiarazione d’amore a una sconosciuta che lui in fondo ha sentito, amato, riconosciuta come conosciuta da sempre. Ed è davvero l’eterna fidanzata del cuore, la Beatrice di tutti e di sempre; o in ogni caso, avrebbe poetato anche Pasternak, la Lara di ogni Dottor Zivago; e insieme, si capisce, anche il nostro sangue fiorito d’ogni primavera familiare, domestica o planetaria, Mia sorella, la Vita:
Non credo che
Nulla accada per caso
Un sorriso uno sguardo
Al quale mi sono arreso
Ok è andata come è andata
Ma per me
è stata una fortuna averti
Incontrata e…
Il messaggio o messaggino finale è per Dio – o ciò che lui sente come Tale… Quasi un sms lirico (adesso saremmo arrivati al whatsup)… Una chiosa d’Altissimo che è un appunto all’Altissimo, ma in realtà alla sua e nostra stessa anima. Bisogna meritarselo Dio, e non nominarlo invano, esattamentre come l’anima, che, se esiste, è scintilla, brillìo, tutto/tutta dentro di noi!
Ai margini di una città
Io mi chiedo
Questo Dio dove sta?
Non vede
Tutto ciò che accade?
Perché permette
Tutto quello
Che succede
Ma accade comunque e sempre l’anima. Succede sempre la poesia…
In questo almeno divinata e divinante, stradaiola ma creaturale, sfortunata a volte, eppure divina. Premio a se stessa, dicevano gli antichi, come l’amore. L’accadde domani, Giampaolo caro, che pulsa, avviene ogni giorno. E lo rischiara. Vicendevole, assaporabile Black & White. Degustiamo, centelliniamo, beviamoci Poesia!
Plinio Perilli
ANTONIO CARLO PONTI
Postfazione faziosa
Oramai sono il padre spirituale laico e ufficiale del poeta umbro che qui, in questo libro, si è presentato per la quarta volta con una raccolta di versi di poche sillabe ma agguerriti nella forma e nella sostanza per usare una obsoleta formula scolastica. Un’altra plaquette per soddisfare i suoi fan che sono numerosi. Poeta inarrestabile incazzato irresistibile ispirato. A suo modo engagé; il titolo la dice lunga sulle sue posizioni umane. Black and white. Non è certo amico dei wasp (white anglo-saxon protestant) razzisti. Poeta sorgivo, sonoro, spontaneo. Se fosse una donna si direbbe acqua e sapone. E uomo intero integro integerrimo. Una meraviglia di persona umana. Bastia Umbra gli dovrebbe un monumento come a Colomba Antonietti. Uno con la schiena dritta, tutte le cose morali e intellettuali a posto. Il Nostro è un aedo contemporaneo, un po’ narratore di storie e in po’ cantore di sentimenti. Se dovessi accostarlo a un personaggio narrativo questo sarebbe il principe Miškin, l’idiota di Dostoevskij. E spero di non essere capito male. Del resto il buon Gustave Flaubert non fu chiamato tale da Jean-Paul Sartre? E la nipote del sommo scrittore dopo aver pubblicato un libriccino non disse: anche mio zio Gustave Flaubert era un letterato? Quel Flaubert che in agonia si lamentò: io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno. Le le anime pure, gli ingenui, i positivamente buoni, quelli che si fanno ingannare, perché non conoscono il male, non son chiamati idioti?
Caro Giampaolo, non siamo emeriti idioti io e te? Vasi di coccio fra vasi di ferro. Navigatori dell’inutile onesto. Gente per la la quale il denaro è sterco del diavolo e siamo d’accordo con le idee bislacche di Ezra Pound (derubato del nome dai fascisti di Casa Pound) in una cosa: odiamo gli usurai. Crediamo ciecamente nella poesia, nelle ballate, nelle parole.
Il denaro sì ci sfama e ci veste e ci disseta e ci sostiene nella malattia e ci seppellisce persino; e a noi ci fanno schifo i black friday, siamo per l’uguaglianza tra black and white. Il resto è barbarie.
PLINIO PERILLI (Anime Rock “ventisette” vol I)
Per Giampaolo Bellucci
e la sua Anima rock
Suo malgrado e nonostante tutto, Giampaolo Bellucci riesce sempre a sorprendermi – e c’è riuscito anche questa volta, ai tempi pessimi del coronavirus, in piena emergenza sanitaria, sociale, economica, comportamebtistica – e chi più ne ha, più ne metta…
E lui, sciorina, solfeggia tranquillo le sue poesie “quotidiane” come le filastrocche o i ritornelli che una volta si fischiettavano per strada (oggi non più – non si canta più!, lo segnalò già Pasolini: al massimo, si ascolta con le cuffiette un po’ di musica.
Sempre la solita
Musica
Trita e ritrita
Colonna sonora
Di questa stupida vita
Rocker d’anima e nell’anima, Giampaolo qui si svela e rivela pienamente, ironico e sensibile in pari misura: ma sempre smoderatamente, squisitamente sincero.
Ma sappi
Che anche i tipi rock
Non stanno sempre al top
E proprio nei momenti
Più neri
Scrivono
I loro più bei pensieri.
Rivedevo proprio pochi giorni fa un concertone must di Vasco Rossi, e mi ha colpito – come sempre – non tanto o non solo la felicità, la piena, complessa semplicità delle sue canzoni, ma proprio e moltissimo l’adesione popolare, il trasporto sincero di tutti i fans, i partecipanti: come se proprio in lui essi trovassero lo specchio, il ritornello esatto, il rif, bello o brutto, radioso a tratti, più spesso sbilenco, della loro stessa vita, esistenza, valenza…
Così in qualche modo anche Giampaolo – nel suo piccolo, nella sua schietta e dorata semplicità – canta, cantilena in poesia il suo vivere, esserci, ripeto, bello o brutto, radioso o sbilenco, ma indissolubilmente sincero, in qualche modo bello, bello perché vero…
Ed ecco le parole
Pregne di dolore
Che lasciano uscire
Come un animale
In gabbia
E dentro tutta la loro rabbia
Graffiante
Come granelli di sabbia
Dentro a degli slip
E poi la gridano
Fastidiosa
Dentro ai loro
Videoclip
E a colpi di rock
Le loro poesie
Arrivano al top
*******
Di Giampaolo, da sempre, mi affascina dunque il tasso altissimo, brioso ma ineludibile, di verità. Una sincerità spasmodica, doverosa, biliosa e generosa, smaniosa ed erosa (tutte rime in osa! – pure, la sua vera rima in “osa”, resta la rosa, il fiore simbolo, la cara fioritura metafora, oltre che il nome della sua vecchia e cara Mamma Rosa, Rosina). Insomma l’idea di una poesia davvero come una strana e continua primavera interiore. Ma non proprio come quella segregata e allucinata, vietata di quest’anno 2020, in nome del Covid-19…
Questa strana
Primavera
Dove la gente
Si chiama
E si parla
Da ringhiera
A ringhiera
A distanza
Di molti metri
Nei peggiori casi
Si sorride
Dietro a dei vetri
Sempre uguali, così, le sue poesie, e sempre diverse.
Perché è la vita, che le ispira, e ogni nostro giorno è identicamente diverso, diversamente uguale. Non ci si bagna due volte nella stessa acqua dicevano i filosofi antichi… Tutto scorre e niente rimane…
Le persone
Sono come il tempo
Possono cambiare
In qualsiasi momento
Possono passare
Dalla gioia
Al tormento
Dall’amore
All’odio
Gettarti dalla torre
O metterti su di un podio
Intrigante, il discorso del Prof. Roberto Segatori – esimio sociologo – sul rap, il rapping, e tutta questa poesia a cavallo tra musica e società, la voglia di cantarsi e il metodo, la maniera di farlo… Una poesia cantabile che Segatori annovera come a un unico alveo rapping romantico e sociale:
“… Ma basta leggere in questo volumetto le poesie Democrazia o Dentro l’anima per avvertire le scansioni tipiche che si avvicinano a quelle di un cantante rap, in cui la cantilena si nutre di incisi a tratti molto efficaci.”…
Ma in verità, non la pensiamo esattamente alla stessa maniera. O forse sì, ma con diversi ragguagli ed esemplificazioni – diverse carature ed apparentamenti.
Semplicemente, Giampaolo Bellucci ci mostra – denuda – una sua anima pop-rock (in verità più pop – cioè popular) molto più schietta e semplice!
Innamorato, cresciuto a sentimenti del quotidiano, nel quotidiano, con l’immediatezza sincera, rutilante e romantica così usuale al nostro storico buon cantautorato, da Gino Paoli a Luigi Tenco, da Fabrizio De Andrè a Dalla, Guccini, lo stesso Battisti (cantore popular per ecccellenza per almeno un ventennio, dalla fine dei ’60 a tutti gli ’80)… Altri ne vennero e ne abbiamo amato, e Il cielo in una stanza o Piazza grande, noi l’abbiamo via via ritrovato nelle canzoni di Zucchero, di Vasco Rossi, Pino Daniele, Edoardo Bennato, Venditti e De Gregori, Cocciante, tra burattini senza fili, donne cannone, belle senz’anima, ma sempre – ahinoi – in questo mondo di ladri… Una celeste nostalgia permeava tutto e spazzava anche via, tutto:
ed è la stessa che sempre colgo in Bellucci e nei suoi testi sempre come pronti per essere musicati, iterati, canticchiati, romanzati e filastroccati, smozzicati nel vivere, gioire o patire di tutti i giorni… Sia quelli di rabbia, che quelli per fortuna d’amore:
Con gli occhi
Dentro
Agli occhi
Senza più
Segreti
Giochiamo
Come bambini
Nascondendoci
Sotto i cuscini
Poi le tue labbra
Sulle mie
E tutto sembra
Amore
Come nelle poesie
Il punto più autentico e in qualche modo dolcemente trasgressivo della poesia di Bellucci è, viceversa, quando proprio la sua dolcezza, stanchezza, franchezza… trova il ghiribizzo, la sbrego, lo squarcio intimo e soprattutto psicologico per una lamentazione sopra le righe, insomma una tirata invelenita, desolata, arrabbiata, incacchiata – per dircela tutta e francamente. Stop col self control, basta mitezza, dolcezza! – e l’arditezza gli diventa anche un risoluto e inarginabile escamotage linguistico, insomma una smadonnante forma mentis, non meno pura ed in realtà devota al nostro sacro quotidiano, di tutte le altre precedenti o successive filastrocche di candore e beltà…
Tanto da spaccarci
I coglioni
E notizie atroci
Crudeli
Ingiustizie
Nell’emarginazioni
Sevizie
A bambini
A neri
A barboni
Che hanno subito
Torti
Ingiustizie
Umiliazioni
*******
Sempre più belle, queste nuove poesie di Bellucci, perché sempre più semplici, davvero elementari, come Neruda amava fossero, giungessero le sue odi, affratellanti… E sempre in nome della sacrosanta, spesso negletta o vituperata Verità…
Chiudetemi dentro questa
Stanza
Da solo
Gettate via anche
La chiave di ogni speranza
Io mi muovo
E frugo dentro me stesso
Sono qua
Ma in ogni luogo
Cerco nella verità
Il giusto verso
Per comporre
Giampaolo ci si incaponisce, con la Verità, con l’essere come è, e non come bisognerebbe essere (a detta dei molti)… Se è la vita, che realmente s’è capovolta, lui preferisce essere due volte e davvero “All’incontrario”, come per pareggiare le storture e le mistificazioni:
Alcuni dicono
Che il mondo sia
All’incontrario
Ma forse è vero
Quando vedo attaccato
Al pavimento
Il mio lampadario
È un mondo capovolto
Dove
Il ricco è ricco
Perché al povero
Ha sempre tolto
E via così, con un continuo e pur dolce (perché poeticamente effuso, intonato) attacco alle menzogne ripetute, alla buia foresta del vivere (un vivere dove il cuore è bandito); alle fastidiose e insopportabili contraddizioni, al black out imperante e inesorabile che ci risucchia nel malessere, ci attanaglia:
Sei giovane
Ma ti senti vecchio
Senti bisbigliare
Una strana
Cantilena
Vorresti gridare
Ma l’urlo nell’anima
Come un pesce nella rete
Si dimena
Le sue poesie più felici – liete d’armonia – sono invece quelle dedicate all’amicizia, all’amore, ai sentimenti forti, diciamo alle virtù più autentiche, ma senza etichettature di sorta, senza vernissages retorici…
Citiamo almeno, in ordine sparso la sensualità garbata, devota e rapinosa di “Armoniose donne” (“Amo il movimento / L’ondulazione del tempo / Che attraverso”); ma anche la franchezza memoriale, spudorata e insieme pudìca di “Anni Novanta”:
Erano gli anni di Masini
E nella mia vita
Iniziavano i casini
Una bella svedesina
Di vento vestita
Mi stringeva
A sé ogni mattina
Nessuno però più di lui riesce a rimanere semplice e garbato, creaturale senza forzature o accentuature, quando ci parla delle persone umili e affrante, i senza scopo senza casa senza famiglia ma mai – questo dobbiamo capire – senza dignità residua. “Barboni” è ad esempio una sua centrata, umanissima dichiarazione di poetica:
Per me scrivere
Vuol dire vivere
E scrivendo
Racconto la vita
Partendo dal mio
Profondo
Ed arrivando
Alle viscere di un mondo
La vita io l’ho castigata vivendola… scriveva Cardarelli, il nostro etrusco ed elegantissimo maestro rondista primo-novecento. Giampaolo Bellucci vive e castiga in fondo, poetandola, chi non crede alla Vita, e la umilia come si umilia una persona, un destino d’anima:
Mi ricordo
Quand’ero
Cameriere
Gentile e sorridente
Ma mai servo del
Potere
Niente invece più della vita nobilita il nostro cuore, e in un certo risana omeopaticamente anche il corpo, spesso in balìa, è vero, di mille anche invisibili tempeste “Dentro l’anima”:
Tu che ne sai
Che tipi di farmaci
Prendo
Che ne sai
Se anche quando sbaglio
Non mi arrendo
Lo salva il suo stesso bioritmo, il sogno praticato e vissuto della poesia, la dolce terra dell’Italia centrale dove vive, “Il cuore di Perugia” che “Su di un colle / Si adagia”… I ricordi più cari, laici o sacri “Tra i vicoli / Di Assisi” (“Ho amato / Belle straniere / Incontrate / Sul verde prato di San Francesco”)…
Allora, ogni “Gioco di Potere” sembra risibile – molto più che deprecabile. E una cara, fiduciosa costante di “Gioia e malinconia”, lo prende, lo danna – ma anche lo risana.
E niente è mai lo stesso
Oggi sei triste e depresso
E domani ridi e ridi
Perché siamo qui
Siamo vivi
Anche le rime e rimette d’alleggerimento, le assonanze fervorose ed emotive, diventano punti fermi sapienziali, pietre miliari nella mappatura, nell’itinerario esistenziale d’ogni cuore.
Ma oggi sono proprio stanco
Eppure questo foglio
Non è rimasto bianco
Ho gettato i miei umori
I miei colori
I miei sapori
Le emozioni del momento
In questo mio attimo di tempo
Onore, ripetiamo, per questa sincerità, per questa tenerezza nuda e mai pososa, stilosa, vanitosa… Onore per avere improfumato ogni cosa, in auspicio, devozione, petali e spine di Rosa.
Plinio Perilli
Roberto Segatori
Un rapping romantico e sociale
È una sensazione condivisa dai lettori e da chi li ascolta. I
versi di Giampaolo Bellucci richiamano una tradizione antichissima
e insieme contemporanea di poesia cantata. Antica,
perché così si esprimevano – ovviamente con ben diversa
epicità – gli aedi della classicità. Contemporanea, perché,
come scrive Cheryl Lynette Keyes in Rap Music and Street
Consciousness (University of Illinois Press, 2004), essa riproduce
una forma di oratoria musicale che presenta “rima, discorso
ritmico e linguaggio di strada”, detta appunto rapping.
Magari Giampaolo Bellucci non sarà contento di questa
associazione. Ma basta leggere in questo volumetto le poesie
Democrazia o Dentro l’anima per avvertire le scansioni
tipiche che si avvicinano a quelle di un cantante rap, in cui
la cantilena si nutre di incisi a tratti molto efficaci.
Da un punto di vista strettamente letterario, questa
modalità ricomprende in sé il suo limite e il suo merito. Il
limite sta nel fatto che è una forma poetica facile, fluida, quasi
destrutturata. Il merito è che, proprio per il suo carattere,
essa si fa leggere e ascoltare volentieri da quasi tutti in un’epoca
in cui pochissimi si soffermano ormai su un poetare
complesso, arduo, da iniziati.
Del resto Bellucci ne è ben consapevole quando, nella
Buia Foresta, inizia giusto con queste parole: “Sto ben fin
troppo poco/ Nella mia testa/ Figuriamoci se posso/ Stare in
quella degli altri”.
Ebbene, non sta forse in questa condizione il bello e il
brutto della nostra epoca?
Roberto Segatori
FRANCO FASANO (Anime rock “Amore e anarchia” vol. II)
PREFAZIONE
“Un uomo che pensa” (da Pensieri)
Anarchia, libertà, gabbiani, bullismo, pazzia, violenza sulle donne ma anche amore e amicizia. Tanti i temi trattati da Giampaolo Bellucci in queste sue riflessioni scritte sapendo “intingere la penna nel calamaio del suo cuore”. Le troverete ben scritte, immediate da capire e infinite da approfondire. A volte storie vere come Il fattaccio di Manduria altre memorie autobiografiche come in Beat Generation o in Luisa ora vestita di nostalgia. Anche il calore umano è il solo desiderio che in Mai più lontano prende le distanze, senza rinnegarle, del periodo della gioventù. Il libro ha una sua “sonorità” che a volte si riferisce proprio a certe musiche legate a un periodo preciso, diventando così colonna sonora di quei momenti, dove ancora oggi l’aggressività di una pettinatura a cresta, un chiodo inglese e la dolcezza di una ragazza svedese con Quei suoi occhi azzurri come il mare restano un Malinconico ricordo.
Prendere spunto dal proprio vissuto e rinventarlo col senno di poi, trasforma l’Innamorarsi del Bellucci in quella sua Follia creativa di cui il libro è pregno. Interessante la descrizione in Matto e “matto” dove la differenza tra i troppo certi di se stessi e i matti conclamati diventa quasi uno momento psico-auto-biografico che ritorna in una altra poesia, Matti, dove quel “amo la mia follia, il mio eccesso di euforia ne è la conferma. Per non parlare di Oblio che racconta la speranza dell’autore affinché le sue poesie possano essere di conforto a chi si sente solo, come fossero pasticche per curare quelle malattie che prendono l’anima.
Colpiscono, poi, gli argomenti di altre due tematiche. In Non è solo in tv, il tema dei migranti ci invita a non confondere la realtà con le fiction ma soprattutto ci fa ricordare il nostro dopoguerra vissuto magari da emigranti italiani che nel passato sono andati in paesi lontani.
L’Omofobia è trattata con quasi rabbia, schierandosi dalla parte non solo di chi la subisce ma anche di chi la combatte riallacciandosi a certi baci tipici che ricordano quel legame tra politica e mafia.
L’unità di misura ne Il valore delle cose la dice tutta sui Pensieri dell’autore che sono così importanti per ogni uomo, per ogni società!
Suggestiva la metafora in Nelle mie dita: come fiori si aprono diventando gli argini di un fiume dove scorre la vita con i suoi momenti belli e no, dove appare una fede già tradita che racconta la fine del dialogo di chissà quale amore. Intensa e sensuale, Come il mare racconta, con delicatezza, l’emozione di un atto d’amore dal suo preliminare al suo epilogo.
Tra le altre atmosfere si rivive anche quella estiva, calda di quella luce di luna e stelle riflessa negli occhi e sulla pelle de Le ragazze del mare. Al contrario ne Le vie del cuore emerge il bisogno di rifugio dell’autore che incontra ogni cicatrice, ogni dolore e nel camminarle si accorge quanto si siano consumate le suole.
Spunti di confidenza sincera in Mia cara amica in contrasto con L’ipocrisia che ben descrive il ciò che si dice o si scrive pensando al suo contrario. La necessità poi di tornare al rivedersi con Quattro amici dove i momenti felici, in cui si era compagni di scuola e di merende, restano intatti a distanza di anni.
Ma, come detto ne L’eco, di poesia non si vive ma almeno si ha la speranza di lasciare una testimonianza di se stesso ai posteri sconfiggendo il tempo, rotolando in discesa lasciando una traccia di se al domani. In sintonia con lo stesso stato d’animo “Sogno divino” dove è la creatività mossa dalla fantasia a far camminare l’ispirazione nel desiderio di lasciare in chi la legge la sua impronta e una nuova giornata già pronta.
C’è spazio pure per descrivere ironicamente la presa di coscienza de Il bello che sta invecchiando. Lui continua nella sua convinzione di esserlo nonostante il tempo gli abbia cambiato i connotati; imperterrito va oltre il suo concentrato di certezze perché per lui gli altri sono mezze calzette.
Con L’abbandono si descrive bene quanto la mancanza possa fare paura e autentica è la descrizione de L’artista puro, quello di strada che si offre ma non si vende , perché nessuno lo critica o lo corregge libero di esprimersi per pochi spiccioli di gloria.
Nel ricordo di Mi voglio innamorare c’è tutto il potenziale di una canzone per la “sonorità” delle sue parole: E invece no che non è così /Io mi innamoro sempre cherie…/E allora vivo/E mi fido/ E mi lascio andare perché nel mio domani mi voglio ancora innamorare! Certi versi diventano così “musicabili”: un grido sopito/rumoroso silenzio in Io come te, mentre in Come ci pare Amo, Odio, Sputo, Bevo e alla fine, come tutti tirerò le cuoia ma nella vita avrò soddisfatto ogni mia voglia sembrano scritti, quasi immaginati, per essere interpretabili alla Califano. La Tristezza/Allegria/Gioia/ Malinconia raccontata in Vita mia o in quel non so Che sia Il natale per me, non importa se ancora stanno al mondo o nel creato ma i pensieri si rincorrono come in un girotondo la cui amarezza sembra avvicinarsi a quella di Bruno Lauzi; continuando nella descrizione della donna ne Il passato o ne Il rumore del mare come invito alla riflessione fino a schiacciare l’occhiolino a Paolo Conte in quella bella notizia e una notte non è più nera come liquirizia presente ne Il treno dei sogni che qui però “nei pensieri all’incontrario” non va, guardando al futuro. Insomma come detto ne Il giorno dopo la fine di una festa la metterai in cornice ma una cosa è certa: solo Il lunedì può ricominciare…la vita.
E così, il Povero poeta chiude questa sfilza emotiva di versi immaginati, interpretati e impaginati a modo suo. Parole nelle quali, come ho già detto, sento spuntare il suono di certe melodie a me care, tutte al ritmo di un “cuore”, quello di Giampaolo Bellucci, che continua a inseguire il tempo in ogni suo battito, nonostante l’aria che tira.
Franco Fasano
ANTONIO CARLO PONTI
Bellucci marzo
Postfazione
Ormai la mia frequentazione con i versi di Giampaolo ha la durata di una vita perché la vita del poeta è come la vita dei gatti, ogni anno ne vale sette dei nostri. Dicono. Quel che so è che i suoi versi mi lasciano interdetto, sgomento, scendono dalla sua mente candida e dal suo cuore smisurato come per un miracolo lessicale e rimario, come l’acqua del ghiacciaio durante il disgelo. Una forza etica e lirica che scaturisce da una vita piena di errori, esistenziali, presumo, non ho mai scavato nella sua vita, non m’interessa so che ha sofferto e vive una redenzione assoluta, compagna gli è la solitudine e l’amicizia di noi che lo amiamo a scatola chiusa. Diavolo di un poeta sempre antico e sempre rockettarmente moderno.
Ho perso il conto dei suoi libri di poesia, sono molti e in incessante evoluzione, evoluzione che è fatta di reiterazione e di varianti, non di rivoluzioni. Del resto perché cambiare forma e contenuto? Squadra che vince non si cambia dice un adagio ben conosciuto da chi come noi guarda, oggi in solitario, una partita di calcio che, sia pure nelle sue contraddizioni immorali è pur sempre – dopo Eschilo Shakespeare Pirandello… – lo spettacolo più bello. Toh! È venuta una rima anche a me.
Ma a Giampaolo non gli frega niente del calcio e fa bene, a lui basta andar per boschi idealizzati o meditare guardano dietro i vetri il mondo che scorre oltre il Chiascio, nella Bastia Umbra piatta e opima che lo ha accolto e dove vive la condizione del poeta.
Se ci fosse qualche dubbio – e non ve n’è – il nostro poeta è anarchico: «Non cammino mai | A testa bassa | Non seguo mai la massa» dice orgoglioso della sua libertà, no, delle sue libertà: pensiero opinione religione riunione voto partito parola… ripudiando guerra violenza razzismo fascismo intolleranza egoismo… avendo un rispetto assoluto per la donna per l’infanzia per la vecchiaia, forte del solo suo patrimonio genetico, la parola alata e rap, la parola sincopata e veloce nelle sue metriche come scolpite e incolonnate sulla pagina.
Le poesie di questo secondo momento musicale di Anime rock è un florilegio di fulminanti aforismi, di “adagi” saggi, di frasi come scudisciate, di riflessioni ”filosofiche” e altro molto. Ha ragione, la normalità è banale, la si lasci ai pigri, agli indolenti, a chi non pensa, a chi si lascia trascinare dal web che riempie di spazzatura, a lui, le parole gli sbocciano come fiori, sono onde gravitazionali, quark e astri del firmamento. A volte il passato gli riempie il bicchiere di presente alimenta la speranza, gli dona vigore morale, aspettativa di vita, gioia di vivere. «Il mio maestro è il passato.»
[Antonio Carlo Ponti]
MAURO MELA (Anime Rock “Lo Show” Vol. III Prefazione a “Anime rock volume 3.Lo show”)
Di Mauro Mela
In un notissimo saggio apparso nel 1967 intitolato “La società dello spettacolo” l’autore, il filosofo situazionista Guy Debord, afferma che nel nostro tempo la spettacolarizzazione prende il posto della religione, realizzando “l’esilio dei poteri umani in un al di là” e si configura come un guardiano che vigila affinché la società permanga in un sonno incatenato. Mentre precedentemente la religione s’ imponeva agli uomini tramite una serie di divieti e prescrizioni, lo spettacolo ci dà l’illusione di cosa si potrebbe diventare o fare o essere attraverso un finto permissivismo che a sua volta si oppone a tale presunta possibilità.
In un quadro siffatto va da sé che l’individuo odierno, attratto e stordito dallo sfavillante gioco d’ immagini e suoni, risulti talmente alienato da non poter più pervenire a saggezza. Nell’universo infinito delle proposte lanciateci addosso quotidianamente dalle varie forme editoriali, televisive, cinematografiche, dall’ industria musicale, pubblicitaria ed in ultimo dal web, la profezia di Debord si è notevolmente moltiplicata a partire dagli anni ‘ 80 del secolo scorso fino all’ acme attuale. Inevitabilmente questo profluvio di proposte ha contribuito via via a fondere le classiche distinzioni tra generi artistici in primis le due categorie storiche madri di ogni distinzione: “colto”e “pop” pur con tutte le eccezioni del caso(si pensi ,ad esempio, che i loggioni dei teatri d’ opera sette/ottocenteschi erano comunque gremiti di appassionati melomani popolani analfabeti). Di fatto a partire dagli anni ‘70/‘80 colto e pop hanno subito una forte mescolanza in una sorta di brodo indistinto e globalizzato; gli chansonnier francesi, i cantautori italiani e stranieri prendevano posto nelle antologie scolastiche al fianco e con crescente pari dignità dei letterati con la “L” maiuscola, un processo graduale che porterà Bob Dylan al Nobel per la letteratura.
Prima ancora, com’ è oggi, che il “globale “permeasse definitivamente ogni singolo aspetto dl vivere, dal modo di lavorare, di mangiare e di pensare in occidente, nella sesta, settima e ottava decade del ‘900, questo fenomeno iniziò con la musica pop/rock anglofona, con il cinema e l’abbigliamento. Lunghissima ed inelencabile per non correre il rischio di dimenticare qualcuno, la sfilza di musicisti, cineasti e stilisti che con le loro opere assursero a livello di arte colta pur appartenendo all’industria mercificata dello spettacolo, incaricata del profitto e della diffusione su vastissima scala.
In quest’epoca hanno vissuto la propria gioventù l’autore Giampaolo Bellucci ed il sottoscritto, anno più anno meno, collocati nella provincia umbra, appartenenti alla generazione dei nati ‘60/‘70, piacevolmente inondati da un profluvio di stimoli sonori e visivi provenienti dal mondo anglosassone, una novità, una rarità. Accadeva che nel giro di un pomeriggio ci si presentassero alle orecchie album come “The dark side of the moon”, “Aqualong” “Led zeppelin 1” e tanti altri capolavori; più che apparizioni erano per noi folgorazioni: The doors, i riferimenti ai poeti maledetti, per noi che avevamo sentito al massimo Pupo, i ricchi e poveri, il liscio alle sagre. Tali epifanie sonore accadevano nella cameretta di quello “che di musica ci capiva”,poco più grande di noi, quello che durante l’ ascolto ci registrava anche la musicassetta che a nostra volta avremmo condiviso anzi “sdoppiato” con un amico scelto “che avrebbe capito, uno dei nostri”insomma. Riti iniziatici attraverso sonorità extraterrestri, in tasca nel giubbotto, nel sottosella della vespetta insieme alle marlboro pericolose e proibite, viaggiavano questi amuleti che potevano aprire scenari immaginifici attraverso un nastro contenente pura bellezza, condivisibili anche se “non erano per tutti”,solo per noi e pochi altri “alternativi” alla massa “commerciale”,consumatrice plebea che magari, magari ne fosse stata degna.
Lontanissima sembra ora quella fase, ora che la consapevolezza tarda ci svela il fine dei burattinai di quel tempo, già abili nel dividerci in confraternite, in gruppi di tendenza, in schemi prefissati facili da gestire: il preludio del controllo odierno sui giovani condotto su basi zootecniche.
“Anime rock volume 3.Lo show”,la nuova raccolta poetica di Giampaolo Bellucci dal quadro sopra illustrato mi sembra che provenga, è lì il terreno su cui poggia.
Giampaolo usa un linguaggio unico in tutte le liriche, semplice e diretto, prosaico e colloquiale, rivolto a tutti, composto da versi brevi, epigrammatici ed aforistici con un’attenzione alle rime e alle assonanze studiata e curata che trasmette una musicalità sempre in grado di trasformarsi in canzone, in ballata; viene quasi spontanea la tentazione di apporre sotto le sillabe le sigle degli accordi per poterle cantare( forse un giorno subiranno questa metamorfosi).
La coscienza e lo sguardo maturo dell’autore è di chi mantiene l’entusiasmo e l’ammirazione verso le molteplici espressioni della società dello spettacolo: “…se non sai cantare/fischia/suona una chitarra/funky/balla/agita i tuoi fianchi…” (Lo show).
È bello partecipare al turbinio ma qualcosa ci frena, qualcosa non torna, un quid che rende amaro lo show poiché il frastuono copre i tratti atavici che ci rendono umani da sempre, i sentimenti autentici rischiano l’ oblio: “…ma noi non ci accorgiamo/di un uomo/che muore/e alla messa di mezzanotte andiamo/tirati fino al midollo/non vediamo la morte” (Quasi Natale).
Lo show copre anche le nostre tradizioni, il Natale diventa sfoggio di cravatte,spettacolarizzato anch’esso, come pure la sofferenza e la morte, lo show tende purtroppo e inevitabilmente a produrre rifiuti non solo materiali, ma soprattutto umani e spirituali con il rischio che forse un giorno noi stessi diventiamo rifiuti, costa così tanto il biglietto in termini di pietà, di solidarietà?
“…ed ho pagato / un’ingenuità/ in passato/ tanti anni fa/ ma quel che è stato/ è stato…”
(Otto)
È un prezzo altissimo al calare del sipario; il poeta potrebbe ritenersi fortunato ad abitare un osservatorio esterno alla bolgia danzante se solo fosse un egoista, se solo non vibrasse empaticamente con il resto dei suoi simili, se solo non … ma non sarebbe un poeta ed il castello crollerebbe.
Bellucci ama lo spettacolo, molto meno la sua organizzazione spudorata di protagonismo, di visibilità a tutti i costi: “…ma io non sono così/mi vergogno/ sono timido/ sono schivo/ e il mio sdegno/ ha un livido …./ ho gettato la mia corazza …/ io sono come sono/ non scendo/ a compromessi/ come fanno questi/ che si vendono …” (Lo show)
Dove può cercare conforto l’anima sdegnata dai compromessi? Ne “La notte”, “ …dama misteriosa, amante … “, dispensatrice di sogno, quiete, silenzio; in questi versi elegiaci l’autore si aggiunge a una vastissima schiera di cantori che dagli albori hanno sempre celebrato il mistero sublime della notte.
L’anima di Giampaolo si mette a nudo senza infingimenti, svela la sua paura: “Ho paura di invecchiare …/ temo i mille acciacchi/ e poi diventare vecchi/ è un po’ come essere/ di nuovo bambini/ ma spesso sono/ atroci i nostri destini …” (Ho paura di invecchiare)
Il tema della vecchiaia e del dolore è reso in forma leggera, ma come per contrappasso e per antitesi sprigiona nel lettore un’eco universale che spesso, presi dal ritmo della distrazione, rimandiamo ed estroiettiamo dal pensiero come se riguardasse altri e non noi eterni prestanti, eterni giovani, eterni gaudenti vacanzieri fino alla fine.
Con il timore che questa nota prefatoria diventi oltremodo prolissa (contraria allo stile di Giampaolo così asciutto e diretto nella sua musicalità e ch’egli quindi non gradirebbe), aggiungo soltanto che la lettura delle liriche di questa raccolta assume un tono conviviale ma universale per la nostra generazione e non solo, fluisce dolcemente, toccando le proprie corde personali alternando sapientemente dissonanze e consonanze; ogni singola tematica trattata è nei pensieri e nel cuore di ognuno.
Lo spettacolo deve andare avanti, il rammarico per le sue numerose storture fatte di clientele e di esibizionismi, eccessive mercificazioni e tanta troppa plastica l’animo puro del poeta lo riconosce, lo affronta, lo sente in forma di dolore ma cerca di renderlo fecondo, forse felice, tramite l’unico strumento che l’uomo possiede da sempre in questi casi: la parola.
Mauro Mela
17 Settembre 2023
LUIGI MARIA REALE
Lo Show “Anime Rock” Volume 3 di Giampaolo Bellucci
Appunti di lettura
Luigi M. Reale
44 poesie costituiscono Lo Show, ultimo volume (in ordine di data) della trilogia Anime Rock di Giampaolo Bellucci: il primo, Ventisette, è stato pubblicato nel 2020; il secondo, Amore e Anarchia, nel 2021. Bellucci è fin dall’inizio un paroliere, ha sempre composto testi per canzoni, nel 2006 ha frequentato il Centro Europeo di Toscolano (“la scuola di Mogol”), collabora con artisti, cantanti e attori.
La cifra stilistica del suo scrivere in versi, originato da un immediato bisogno di esprimersi ed esprimere, è condensata nel titolo dell’antologia del 2015, Cantando poesie. Con questo terzo volume di Anime Rock sembra atteggiarsi in “postura d’agguato” nei confronti della vita-spettacolo, Lo Show appunto della poesia di apertura ed eponima della silloge: il protagonismo a tutti i costi (con il cinismo dello show must go on), la megalomania, l’arrivismo di chi “scende a compromessi”, il “falso perbenismo”, mistificazione e manipolazione; aspetti degeneranti della società umana che contraddistinguono questa falsa e falsata dimensione dell’esistenza, contrastando con la natura del poeta, schiva e riservata (che non si “butta nella mischia” preferendo restare “un passo indietro”), in fondo un po’ maudit, ma senza compiacimento morboso, improntata piuttosto alla solidità dei pensieri, delle relazioni e dei sentimenti: «Le mie idee non sono state / Spettinate / I miei principi / Erano sani / E non sono stati / Neanche scalfiti / Dai pensieri più profani / Sono rimasti in piedi / Dai forti urti / Non sono stati demoliti / Perché erano forti / Nell’animo umano / Ben costruiti» (Scossoni). Certo, questa radicata coerenza nei propri principi comporta dolore: «Soffriamo / Per tutto quello / In cui crediamo»; non indulgendo però all’autoconsolazione (né tantomeno all’autocommiserazione), dare voce alla sofferenza – tramite la poesia – può essere come un unguento che abbia facoltà di risanare la ferita: «La cura migliore / Sono le nostre / Parole» (Poeti nella notte).
L’altra faccia della medaglia (o l’altra metà della luna) è una realtà tagliente, su cui l’autore posa il proprio sguardo impietoso con un’indignazione senza reticenze: una realtà che addensa contraddizioni, rivestita d’una vernice d’ipocrisia, indifferenza, degrado. Qui mi sembra consista la cifra più autentica del poeta Giampaolo Bellucci, la sua “anima rock” struggente, con l’irruenza di chi è “andato sempre controvento”: «Io preferivo / La protesta / Che accendeva le masse / La musica rock / Che spaccava le casse» (I primi della classe); «Io sono uno di / Quei vecchi tipi rock and roll» (Noi). In epigrafe l’autore colloca un’autocitazione sulla globale insensatezza della vita e però sull’importanza di affrontarla sempre con spirito indomito, mai rinunciatario (Non mollo), e di coglierne “l’attimo fuggente”, “un solo momento intenso” prima che sia finita. A dichiarare questa meraviglia, sconvolgente nella sua unicità, dell’esistere (in cui sembra non intravedersi un senso apparente ma, nell’istante – «E qui tu ora nel tempo fermo / In posa / Mentre tutto cambia» Trasformazione – che si riesca a fissare in eternità, per rievocare il Faust di Goethe, “è pur bello”), le parole-rima in consonanza sogno: pugno nella poesia Renzino & Silvia; anche qui un tratto rock, un attrito fenomenale tra immaginazione, desideri, aspirazioni e concretezza dell’esistenza che si manifesta nella manina del neonato mentre stringe il pugno dei genitori, in quell’attimo appunto, in quel bagliore aurorale prima che si tramuti nel “pugno allo stomaco” della vita, che ti costringe “a fare i conti” (Storia d’amore), vita che quindi e comunque “è maestra” e rispetto alla quale il poeta si dichiara “sempre un apprendista” (Selettivo).
La poesia, capace di far vibrare nel profondo tutte le corde dell’animo (Poesia), è una forma di “confessione in pubblico”, un diario intimo e insieme aperto al lettore, in cui l’autore – non solo in prima in persona ma anche attraverso proiezioni-personaggi – non si esime dal dichiarare la nostre fragilità (Un uomo) e le angosce (Ho paura di invecchiare), di dare voce all’emarginazione e all’abbandono (Otto, Il cane, Pensa), ad un potente desiderio di riscatto (Mario: «sperando […] di poter rivedere / La luce / Che sicuramente / Dentro io ho»).
Un libro denso e serrato questo, come tutta l’opera letteraria di Giampaolo Bellucci, che al contrario dello show del titolo non è disposto a farci – né a farsi – concessioni o ad assecondarci, ma ci pone di fronte ad un impegnativo percorso di revisione e rimozione delle pesanti stratificazioni illusorie della realtà che la “regia occulta” dello spettacolo vorrebbe imporre. Una poesia, direi, scritta per parlare direttamente alla nostra coscienza assopita (o forse anche “sporca”) e risvegliarla, ridestarla con un energico scossone, un’onda d’urto rock appunto.
JACOPO MANNA(Ladron de palabras-Ladro di parole)
Quando un poeta deve auto-antologizzarsi non lo aspetta un compito facile: dev’essere rispettoso di sé ma anche di chi, leggendolo, vorrà da lui un ritratto verosimile, fare spazio alle proprie predilezioni sapendo però guardarsi con una certa distanza, mostrare continuità e tuttavia non nascondere i mutamenti che il tempo ha imposto alla sua scrittura. Chi abbia potuto seguire il percorso di Giampaolo Bellucci, articolato ad oggi in cinque raccolte di poesie, lo ritroverà qui in forma abbreviata ma fedele e potrà vedervi ben rappresentate tutte le sue costanti: il piacere giocoso di lasciarsi guidare dalle parole-rima, la maniera diretta e senza filtri con cui il linguaggio va incontro alla realtà in modi così spontanei da far sospettare che Bellucci pensi direttamente in poesia, la predilezione per certi temi fra cui in primo luogo gli outsider d’ogni genere. Non vi troverà invece ciò che appare di solito riesaminando un’opera sedimentata nel corso degli anni, e cioè lo sviluppo e l’evoluzione nello stile dell’autore. Questa però non è una mancanza bensì un’altra caratteristica che distingue nettamente Giampaolo Bellucci dai molti e dalle molte che scrivono in versi: a differenza loro, ha saputo infatti trovare sin dall’esordio la sua voce e il suo tono peculiare e non li ha più abbandonati. Non che gli eventi, grandi e piccoli, che il tempo lascia nelle nostre giornate non si riflettano in queste pagine: l’ispirazione da cui nascono ama troppo la vita quotidiana e i suoi personaggi apparentemente qualunque, per attraversare illesa le opere e i giorni degli esseri umani (infatti il tono sublime le è totalmente estraneo). Però il nostro ladro di parole riesce a vedere tutto con uno sguardo limpido e capace di sorpresa, cioè con un sentimento assoluto; e i sentimenti assoluti, per definizione, non sono graduabili né si evolvono: o ci sono o non ci sono, semplicemente. Questa interezza può spiegare anche un paradosso apparente nelle poesie di Bellucci, e cioè che malgrado parlino spesso di questioni dolorose non si riesca ad avvertire in esse il tono della pena; la trasparenza del linguaggio, la linearità della sintassi, la semplicità della retorica producono infatti un effetto luminoso che fa vedere benissimo le cose ma non dà spazio alle ombre. Persino il narcisismo, antico spettro che assilla qualunque lirico, non riesce a trovare appiglio in questo autore che pure ci parla molto di se stesso; la chiarezza di fondo non glielo permetterebbe.
Un grande poeta non allineato, Umberto Saba, scrisse che la rima fiore – amore è “la più antica difficile del mondo”. Giampaolo Bellucci questa, e altre rime, le fa e non potrebbe non farle: chi ha col linguaggio un rapporto così fiducioso e diretto, quando scrive non teme nulla.
Jacopo Manna
ANTONIO CARLO PONTI
PREFA BELLUCCI COLOMBIA
Postfazione
Se potesse, Giampaolo farebbe tradurre le sue poesie in tutte le 141 lingue ufficiali o addirittura nelle 6-7.000 parlate nel mondo. Intanto comincia con lo spagnolo di Colombia, il paese che ha tuttora la sfrontatezza di chiamarsi con il nome di quel razzista di Cristoforo.
Giampaolo in questa plaquette, volta in spagnolo con competenza e sensibilità, riunisce trenta testi, selezionati dalle prime cinque sillogi (su otto): Il treno dei pensieri, Un grappolo di rose appese al sole, Le mie parole, Cantando poesie, La vita non fa sconti. Giampaolo è un poeta seriale, le parole gli sgorgano come respira, ha il senso della musica e del ritmo, e una eccezionale facilità nel trovare la rima, ma sorgiva, spontanea, senza ricerca come fanno molti nei repertori, nei rimari.
Il flusso delle parole è un continuum armonico interrotto dall’istituto delle maiuscole in capoverso, un segno distintivo, fra l’arcaico e il Dada, che dà insieme iati e legami più iconici che di altra natura.
Un dato è certo e certificato, i testi di Bellucci hanno l’ingenuità naïve e nel contempo la sapienza del poeta navigato, del poeta laureato alla Montale: «Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti».
Il poeta umbro, umbro come me, mi ha chiesto uno scritto che aprisse questi selected poems e io scelgo non la pre ma la post-fazione (fari, parlare), ossia parlare dopo. Insomma un commento breve anziché un preambolo breve.
Non sono nuovo a scrivere della e sulla poesia di Giampaolo Bellucci, ormai è un rito che si consuma, con facilità e felicità, e no soy más que un oficiante che tuttora si commuove davanti passione carnale e all’intelligenza popolana di questa poesia popolare, viscerale, di canzone e di canto, che mi ricorda non so spiegarlo il Cante jondo di Federico García Lorca e il suo «verde que te quiero verde, / verde viento verdes ramas» e la sentimentalità tenera e matura così simile.
Va’ poesia per le strade colombiane, così lontane e così latine, quindi vicine, e anch’io faccio rima una volta tanto.
Non posso dire buona lettura, posso dire buona ri-lettura.
Antonio Carlo Ponti
Perugia, 12-13 giugno 2022
GIUSEPPE PALLADINO (Il treno dei pensieri)
opera prima…
Prefazione
A volte mi domando
Cosa accade
In questo pazzo mondo
A volte mi chiedo
La vita cos’è
La vita cos’è
E cerco
Dentro di me
[...]
(A volte mi domando)
È proprio con questa domanda dal sapore quasi socratico che si apre Il treno dei pensieri, di Giampaolo Bellucci. Ci troviamo di fronte a una silloge dal verso sciolto, aliena da qualsivoglia gabbia metrica, libera di dipanarsi sulla pagina senza pagar dazio a formalismi di nessun genere.
Essa si compone di due parti: In viaggio nell’anima e A spasso per il mondo.
Si tratta di titoli programmatici che suggeriscono immediatamente quale sarà il percorso che l’autore ci inviterà a seguire, comodamente seduti sui sedili del treno dei suoi pensieri, ora lineari e taglienti, ora dolcemente sinuosi: un viaggio prima all’interno, negli inferi dei suoi tormenti, e poi all’esterno di sé.
In effetti Bellucci sembra cogliere del viaggio, quella soglia da cui la coscienza può scorgere una nuova dimensione fuori di sé, trovandosi quindi, sull’orlo di una possibile metamorfosi.
La prima parte della silloge dimostra una grandissima umanità nelle parole, poiché vive, tra le altre cose, di quei selvaggi sbalzi d’umore che sono l’essenza di un animo sensibile. Si va perciò da slanci di vitalità infinita:
“E io vivrò ogni mio giorno / Fino in fondo / E camminerò per tutte le strade / Del mondo / E mi innamorerò / Fino a star male / E mi innamorerò / Di ogni mio momento” (Canzone mai finita); a momenti di angoscia suicida: “L’idea mi attrae / Si fa sempre più forte / È un brivido freddo che mi accarezza la schiena / Mentre il cattivo pensiero si appoggia sul polso / E guarda la vena…” (Cattivo pensiero). Per poi risalire con una leggerezza magica e inaspettata: “Un lieve vento spazza via tutte le mie angosce / Le trascina lontano / Come fossero oramai secche foglie” (Ora dopo ora). Fino alla serena accettazione dei propri tormenti: “Amo questo essere imperfetto / Amo questo uomo maledetto / Amo tutte le sue tristezze” (Poesie).
La lirica di Giampaolo Bellucci è quindi un viaggio in profondità, verso abissi di grande sofferenza, vissuta e raccontata attraverso immagini: l’autore cerca di scavare (“come un buldozer”) con le unghie, dentro il suo cuore e all’interno dei pensieri più spaventosi, “Cerco dentro di me e vado a fondo / Immergendomi nel profondo abisso dell’uomo” (La spiaggia dei ricordi) per comprendere cosa ci sia alla base di questa sensazione di depressione che lo tormenta e che egli racconta così:
Si è spento il sole
Nell’anima danzano
I fantasmi di mille paure
I giorni sono
Solo macchie scure
Che sfilano lenti
Attanagliati da cento tormenti
[...]
(Depressione)
In tal senso è estremamente nobile il ruolo che egli attribuisce alla parola poetica: essa è in grado di aprire uno squarcio, uno spazio magico tra queste fitte nubi che si addensano nella sua mente e in questa direzione è caricata di un grande potere terapeutico ed esorcizzante, è un tirar fuori stati d’animo e sensazioni nefaste, per incamminarsi faticosamente verso un cammino di maggiore serenità.
Scrivo perché
Lo scrivere mi fa star bene
Mi svuoto… mi libero… svendo tutte le mie pene…
Le parole
Scorrono come un fiume in piena
Sgorgano dal cuore
E attraversano ogni mia vena
Le emozioni salgono come brividi
Lungo la schiena
E arrivano sulla punta delle mie dita
[...]
(Scrivo perché)
Di fronte all’indifferenza e al vuoto che sembrano spesso riempire i giorni, quando neanche il conforto affettivo di una donna riesce a lenire la sofferenza, l’autore trova, proustianamente, un grandissimo conforto nella rievocazione malinconica del tempo perduto. La sua ricerca, infatti è anche una speranza e una promessa di felicità: ritrovare il tempo non è impossibile, a patto che il mondo ricreato sia un mondo letterario, un mondo interiore, mistico, costruito su questo gioco di memoria e tempo.
Il suonatore di violino
Mi prende per mano
E mi fa tornar bambino
Mi porta lontano
Con la sua dolce melodia
E mi ritrovo
Dentro quel cinema
Di periferia
Dove mi commuovo
Davanti a un film
E ora più nulla mi tocca
Nemmeno la tua calda bocca
Che si appoggia alla mia
[...]
(Malinconia)
Ma così come a volte è fonte di ristoro, altre volte il ricordo diventa struggente e insopportabile, specie quando si lega all’irrazionalità del sentimento amoroso, di cui l’autore è schiavo, pur temendone l’impatto sulla sua fragile anima: “Mi manca / Ogni tua abitudine / Ogni tua mania / Il silenzio della tua solitudine” (Mi manca).
La seconda parte della silloge, A spasso per il mondo, ha un respiro più ampio: qui il poeta mette la sua penna al servizio degli emarginati, di coloro che sono costretti a vivere negli interstizi di una società impazzita che non lascia spazio a quanti non vogliono omologarsi. La civiltà in cui ci troviamo a vivere è descritta dal Bellucci a tinte fosche: i pilastri su cui sembra reggersi sono l’ipocrisia, il benessere ostentato, l’arrivismo disposto a passar sopra a tutto e tutti e l’indifferenza come corazza che schermi da qualunque slancio umanamente cristiano verso l’altro. Di fronte questo scenario apocalittico, tanta è la rabbia: “Vorrei sputare / In mezzo a questo fango / Dove naviga lento / L’uomo nel suo tempo” (Ipocrisia).
Le persone sembrano stupide, sempre pronte a colpire i più fragili: “La gente del quartiere / Parla, sparla, ascolta, spia, / Domanda, vuol sapere / E poi, inventa, ricama, taglia, cuce, / Rivolta, giudica, critica” (La maldicenza). E la guerra pare ancora essere l’unico strumento per risolvere le controversie tra popoli incapaci di comunicare: “L’odio dell’uomo morde il cuore / e la guerra / semina morte come peste” (Sarajevo).
Così scivolano via sulle pagine versi dedicati ai più deboli e agli oppressi; ora all’Amico Sam: La sua casa è una casa di cartone / Lui vive / Nei pressi di una stazione / Lui ride e sorride… / Quando lo chiamano barbone “, ora all’incantevole Maria: “Maria è un travestito / Che ha gettato i suoi pantaloni / Ha indossato le sue convinzioni / E si è fatta un nuovo vestito”; fino ai dimenticati, invisibili, nati nelle periferie più disagiate: “Nati in una borgata / Dove la vita si vive / Solo alla giornata / Tra rifiuti i giorni ormai finiti / Come carta straccia / Già buttati” (Nati in una borgata); e agli operai: “Quando suona la sirena / Gli operai / Son pronti a entrare / Miseri salari / Per spaccarsi la schiena / E per una lira / Son pronti a sudare” (Operai).
Di fronte a questo male e a queste ingiustizie che spesso sembrano singolarmente non affrontabili, si rischia di cadere nell’impotenza dell’inazione e della depressione. Ma alla fine, un germoglio di speranza torna a rinascere, Bellucci capisce che lui ha tra le sue mani un’arma di valore inestimabile, con cui lottare fino alla morte e urlare in faccia a tutti queste meschinità: la penna e i suoi splendidi, sofferti, infiammati versi:
Scrivo con odio
Con amore
E con la fantasia volo lontano
Cerco ogni giorno un motivo
Per sentirmi vivo
E allora urlo tutta la mia rabbia
Con forza e determinazione
In faccia a un mondo meschino
Fatto di soprusi
Ingiustizie
E corruzione
[...]
(Stupida Poesia)
Giuseppe Palladino